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domenica 30 dicembre 2012

ECCO CHI ERA E CHI E' STEFANO PALAZZI


ANEDDOTI E CURIOSITA' SULL'UOMO CHE HA CAMBIATO IL CICLISMO. ECCO UN PARTE DELLA LUNGA INTERVISTA A STEFANO PALAZZI.

Ma chi è Benedetto Roberti, l’uomo più inviso e idolatrato del momento?«Ho lavorato per oltre venti anni al Tri­bunale Militare di Padova - ci racconta con quella sua parlata fluida e ficcante, dal forte accento veneto -. Poi, con la finanziaria Prodi del 2008, è stata prevista la riduzione delle sedi e degli organici della magistratura militare con facoltà per i magistrati militari di optare per la magistratura ordinaria. Così ho scelto di cambiare e da allora mi occupo un po’ di tutto». Ci dica qualcosa di più personale?«Crede che possa essere d’in­teres­se?...».Credo proprio di sì.«Sono nato nel ’58 a Marostica, provincia di Vicenza. Ho fatto il classico e poi giurisprudenza e tutta la trafila
per di­ventare magistrato. Da Marostica mi sono trasferito nel ’92 a Bassano del Grappa, e ora abito a Cittadella con mia moglie Paola e i miei tre figli: Ca­terina 17 anni, che frequenta il pe­nultimo anno delle superiori, Costanza, che fa la prima media e Giuseppe, il più piccino che è in quinta elementare e gioca a calcio nei pulcini del Citta­del­la. Io sono appassionatissimo di calcio e di ciclismo». È appassionato di ciclismo? «Sì, perché, non si direbbe? A 17 anni sono stato letteralmente catturato dal fascino delle due ruote. La prima bi­cicletta me la sono comprata a Ma­ro­stica. Mai agonismo esasperato però, solo delle belle passeggiate. A 32 anni mi sono comprato anche una mountain bike e mi sono tesserato con la Cicli Antonello e ho cominciato a fare anche qualche Gran Fondo. Tanto divertimento e anche qualche incidente di percorso con tanto di frattura di una clavicola. A 34 anni sono passato al ciclismo su strada. Ho una Look e ho anche disputato qualche Gran Fondo con la maglia della Cicli Bassan di Abano Terme. Ho corso l’Alpe Adria Tour, la Pinarello, la Campagno­lo, la Pantani e la Dolomiti per ben due volte: sempre il lungo però, perché io sono un passistone. Sono alto più di 190 centimetri e non sono certamente uno scattista, ma un buon passista forte e resistente. Mi piace la salita, me la cavo in discesa».Un corridore tutto pane e acqua… «Certo, solo barrette e acqua. Ve lo assicuro. Quando lavoravo per la giustizia militare avevo molto più tempo a disposizione e mi allenavo moltissimo, quasi tutti i giorni. Ora faccio molta più fatica. Vado solo quando posso, nei fine settimana, e solo per puro piacere». Cardiofrequenzimetro? «Non lo uso. Pane acqua e sensazioni. La mia salita ideale è lo strap­po della Ro­sina, sopra Ma­ro­stica. Da quelle par­ti incontravo sempre i professionisti della zona: Pozzato, Rebellin, Moletta, To­sat­to e tanti altri…». Facendo le Gran Fondo, quindi, avrà visto chissà quante cose che non an­davano… «Diciamo che mi sono fatto proprio una bella cultura in materia. Loro non sapevano chi fossi e io prendevo nota di tutto, ho capito certi meccanismi. Bisogna essere ciechi per non vedere certe cose. Il mondo amatoriale è di gran lunga peggiore di quello professionistico. Sarebbe da fermare in blocco, fanno cose inaudite, con una facilità e una semplicità che fanno rabbrividire solo al pensiero. Ho visto tantissime persone che si fanno le supposte di cortisone poco prima del via, lì sulla linea di partenza,  davanti a tutti. E partecipanti che si iniettano con naturalezza sostanze di ogni tipo. Non parliamo poi delle gare sotto l’egida della consulta Udace: sarebbero tutte da chiudere. Sono pericolose e non sono nemmeno gare di ciclismo. Per­so­ne di una certa età che vanno a 60 all’ora per due ore di fila: cose che lasciano a bocca aperta. Il problema è che nel ciclismo regna la più assoluta stupidità, non l’ignoranza. E la stupidità è molto peggio dell’ignoranza. È più difficile educare, far capire. Una persona ignorante non conosce, ma ha un margine per poter colmare un vuoto, lo stupido è segnato: per sempre. E nel ciclismo di stupidi ce ne sono davvero troppi. Il Ventolin usato come se fosse Iodosan oppure una caramellina al miele. C’è un problema di sottocultura generale. Non si guarda alla salute, non ci si pone alcun problema. Anche se non si hanno delle doti, si fa di tutto per poter arrivare prima dell’amico. Mi creda è una cosa aberrante». Lei entra nella magistratura ordinaria nel 2008: quando si trova ad indagare per la prima volta sul doping nel ciclismo? «Mi è stata assegnata l’inchiesta che vedeva indagato il pa­pà di Andrea Mo­letta, al quale erano state trovare delle fiale di Lutrelef (un or­mone femminile, ndr). Mi arriva sul tavolo quel fascicolo e comincio a lavorare. In quell’indagine arrivo anche ad intercettare un fa­moso medico, En­rico Lazzaro, condannato per fatti di do­ping nel 2001, che però successivamente è stato assolto in secondo grado dal giudice monocratico di Este».Come mai è stato assolto? «Non condivido le argomentazioni. Non ha ritenuto le prove sufficienti».Poi si è occupato della positività di Ema­nuele Sella…«Esattamente. Grazie a quell’indagine sono riuscito a vedere da dove proveniva quella famosa Cera della Roche, che era al tempo l’eritropoietina del mo­mento. Era di facile utilizzo e senza l’obbligo di temperatura controllata, quindi si poteva trasportarla senza l’ausilio dei famosi frigoriferini. E si è poi arrivati all’arresto del ser­bo Aleksan­dar Nikacevic, ex professionista della Cerchi Alessio, ct della nazionale dilettanti della Serbia. L’altro punto di riferimento di Nikacevic era Donato Giuliani, ex gregario di Gio­vanni Battaglin negli anni ’70, direttore sportivo di una formazione di giovani, la Ha­dimec Nazionale Elettronica, una squadra italo-svizzera i cui membri italiani sono entrati tutti nell’inchiesta. Tutti rei confessi e trovati in possesso di sostanze dopanti di ogni tipo, dall’epo al gh, igf1, ecc. In un interrogatorio, il buon Giu­liani si è così giustificato: “Nel ci­clismo è sempre stato così; se non vinco non arrivano i soldi degli sponsor e per vincere ci vuole il do­ping”. Giuliani è stata una figura molto importante, ci ha spiegato tutto, ci ha aperto gli occhi. Le racconto un’altra cosa, che le da una fotografia del ciclismo….». Ci dica. «Non le faccio il nome perché non è im­portante, ma la sua storia è emblematica. Un tossicodipendente padovano era preparatore alla Varedo Miche­lin, una formazione dilettantistica lombarda. Frequentava il SERT perché co­cainomane e a casa sua abbiamo trovato di tutto. Portava in giro una borsa ver­de nella quale teneva farmaci di ogni tipo: ormoni femminili, testosterone, Ventolin, gh e così via. Questi era un tossico, tutti lo sapevano, ma nessuno provava il minimo imbarazzo. Nel ciclismo non ci si scandalizza più di nulla. Tutto è normale, tutto è lecito. Sono anche convinto che loro si considerino più uomini degli al­tri, perché rischiano, perché sono furbi, perché osano e si fanno grandi agli oc­chi degli stolti. Lo ripeto, nel ciclismo di stolti ce ne sono troppi». Ma secondo lei il ciclismo è tutto marcio? «Non tutto, ma non è messo per niente bene e creda a me, non è cambiato nul­la. Non è vero che la situazione negli ultimi anni è migliorata. Non è cambiato assolutamente nulla. Abbiamo a che fare con persone senza scrupoli che si iniettano di tutto, senza nemmeno sa­pere cosa stanno facendo. Prodotti trafugati da ospedali, oppure provenienti da Paesi dell’Est senza nessuna garanzia e loro si fanno emodiluizione senza alcun problema». Che idea si è fatto? «Che non si può combattere il doping solo con la repressione. Il problema è cambiare le teste, fare cultura, ricreare un senso di responsabilità. In questo mondo non c’è più il senso dell’imbarazzo. Si è sfacciati, sfrontati e spietati. Ma il problema non è solo del ciclismo: è il mondo di oggi che è così. Nar­co­tiz­zato, drogato da mille sollecitazioni, an­che e soprattutto culturali. C’è gente che non sa più distinguere il bene dal male». Cosa ha da dire a Renato Di Rocco che l’ha accusata di aver tradito i patti, di non aver collaborato con la Procura del Coni? «Non ho mai replicato e non replico nemmeno questa volta. Ci sono delle regole procedurali da rispettare. Esiste il segreto istruttorio. Ho letto che io non avrei fiducia nel Coni: è falso. Io ho sempre collaborato con loro e continuerò a farlo». Ma sulla vicenda Alex Schwazer, il Coni sarebbe stato scavalcato. Non sapevano nul­la, la Wada sì.«Questo non lo so. Alla Wada sono stati trasmessi alcuni aspetti della mia indagine solo un mese fa, in quanto organo superiore della Nado e quindi sopra anche al Coni. Si tratta pertanto di una polemica infondata. Io non ho tempo di preoccuparmi di queste be­ghe da bar. Ognuno dica quello che vuole. Io ho sempre collaborato con il Coni, ma ci sono momenti in cui non posso fare certi passi. E lo stesso ho fatto per il caso Armstrong. Un mese e mezzo fa ho mandato materiale riguardante Armstrong. Attezione: alla Usada non ho inviato mai nulla. I miei interlocutori sono stati e sono l’Interpol e la Wada, organismi sovranazionali, con i qua­li collaboro da oltre due anni e che hanno a Lione un vero e proprio ufficio mondiale dell’antidoping a cui si sono rivolti poi gli investigatori americani».Cosa bisognerebbe fare, quindi? «Bisognerebbe controllare bene coloro i quali vanno ad insegnare ciclismo ai ragazzi. Chi ha cor­so negli anni ’80-90 e duemila sono sog­getti a ri­schio. Esem­pio: lei darebbe una squadra in mano a Mariano Piccoli? È questo il punto. È qui il problema. C’è da fare pulizia a questo livello. C’è da ripensare a nuovi dirigenti, a nuovi tecnici. Altro che ma­nifesti del ciclismo credibile o codici etici che si fan­no sempre con le stesse persone. Ci deve es­se­re veramente un salto culturale. Biso­gna rendere sconveniente il doparsi. Dobbiamo lavorare sulle famiglie. È un discorso di economia di mercato: l’ingaggio lo si ha se si portano a casa i risultati. Bi­so­gnerebbe pe­rò far capire ai ragazzi, e non solo a loro, che è molto più importante portare in giro il buon no­me del proprio sponsor anziché raccogliere vittorie farlocche. La Feder­ciclismo in questo percorso ha un ruolo fondamentale, una grande responsabilità».