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domenica 9 settembre 2012

TYLER HAMILTON SI CONFESSA ALLA ROSA



Riproponiamo integralmente l'intervista pubblicata ieri sulla Gazzetta dello sport a Tyler Hamilton a cura di Massimo Lopes Pegna giornalista della rosa d'oltre oceano.

Tyler Hamilton ha cambiato look: capelli lunghi e qualche chilo in più.
Ha una moglie bellissima, Lindsay, conosciuta a Lucca e sposata l'anno
scorso, e una vita più semplice, ma serena. Prima dell'intervista, è lui
che ci tempesta di domande: è genuinamente curioso. È il personaggio
del momento: il suo libro «The Secret Race», scritto con Daniel Coyle
dettagliata confessione su ciclismo e doping, col mirino puntato
soprattutto su Lance Armstrong — sta scuotendo il mondo delle due ruote.


Hamilton, che cosa fa oggi?
«Vivo in Montana, mi diverto ad
allenare: cicloamatori e triatleti. No, niente professionisti. Me la
cavo, anche se non ho i soldi di prima: ho speso quasi tutto con gli
avvocati, quando mi ostinavo a mentire per difendere la mia reputazione
in tribunale».

Secondo lei c'è ancora doping nel ciclismo? 
«Credo
che la situazione sia migliorata. Spero che, grazie anche a questo
libro, possa iniziare una nuova era. Dura immaginarlo ora».

Si può dire che fra l'Uci e Armstrong ci fosse un'alleanza?
«Sì,
nessun dubbio. Non so che cosa succederà ora, dopo la decisione
dell'Usada di togliergli tutti i titoli. Sarei sorpreso, però, se questo
verdetto venisse capovolto dall'Uci».

Lei afferma che dieci anni fa la percentuale di dopati era altissima. Riesce a fare i nomi di chi andava a «pane e acqua»? 
«Bassons
e Simoni. Scusi, intendevo Filippo Simeoni: Gilberto Simoni non era un
angelo pure lui. E giravano voci che anche Moncutié fosse pulito.
Capisce? Voci. Come si parlasse di qualcuno di cui stupirsi. Allora era
così: "Chi? Sì, lui è a pane e acqua. Ma dai!". Erano i discorsi che
facevamo in gruppo».

Simeoni venne cazziato da Armstrong al Tour 2004. 
«Se allora ti schieravi contro il doping, venivi tagliato fuori, escluso dalle conversazioni, diventavi un appestato».

Ha mai incontrato Basso nello studio del dottor Fuentes? 
«No, ma so che lavoravano assieme».

Come lo sa? 
«Fuentes
acquistò un freezer sofisticato e costoso che chiamammo "Siberia".
Permetteva di stivare grossi quantitativi di sangue, sufficienti per due
o tre stagioni. Così avrei evitato stressanti e frequenti viaggi a
Madrid. Mi chiese 50 mila dollari, ma solo perché era destinato a pochi.
Fra questi clienti speciali c'erano Ulrich, Vino e Basso. Poi scoprii
che eravamo almeno sessanta: Fuentes faceva un sacco di soldi».

Cosa dirà a suo figlio se le chiederà di diventare un ciclista?
«Per
ora non ho figli, ma mio nipote ha espresso questo desiderio. Mi sono
sentito male. Vorrei non mandarlo nel mondo che ho frequentato io».

Si può dire che se tutti fossero a pane e acqua, il ranking mondiale rimarrebbe immutato? 
Interviene
l'autore del libro Daniel Coyle: «Ci piace pensarlo, ma non è vero.
Siamo in campo scientifico, chi ha il miglior dottore, le informazioni
più avanzate, più soldi e le amicizie giuste ha un vantaggio importante
sugli altri».

Nel libro lei punta spesso il dito contro Armstrong. 
«Non
volevo accusare una singola persona. Lui è per forza uno dei
protagonisti, ma lo scopo era raccontare ciò che succedeva in quegli
anni. Ci tengo a dire che spesso si dimentica che siamo giovani e
persone col doppio dei nostri anni, dottori di fama, ti dicono: "Prendi
questo che ti aiuterà a recuperare e ti farà sentire meglio"».

C'è qualcosa che non ha potuto scrivere nel libro? 
«Sì, un paio di storie importanti non le ho potuto rivelare perché non ancora provate. Grossi nomi? Non posso dirlo».

Perché pensa che l'inchiesta federale contro Armstrong si sia fermata prima di arrivare a un processo? 
«Motivi
politici. Non riesco a pensare ad altro, perché in mano avevano un
dossier molto dettagliato». Interviene Doyle: «Forse dopo i casi di
Barry Bonds e Roger Clemens finiti male temevano un altro flop».

Sorpreso dalla resa di Lance di fronte all'inchiesta Usada? 
«Sì
e no. Sì, perché non l'ho mai visto mollare. No, perché ascoltare le
testimonianze di chi lo incolpa sarebbe stato dolorosissimo. Ma può aver
lasciato perdere questa battaglia per prepararsi alla guerra. Armstrong
non è mai finito».

Dopo le minacce di Armstrong nel ristorante di Aspen l'anno passato è ancora preoccupato per la sua incolumità? 
«Diciamo
che mi guardo le spalle. E se ho traslocato nel Montana è in parte
anche per questo. Vivevo a Boulder, in Colorado, lo Stato dove abita
pure lui. Lì sono successi degli episodi che mi hanno fatto riflettere:
venivo pedinato, computer e telefoni sotto controllo. Poi, quando la
magistratura s'è arresa, le cose sono migliorate. Chissà, forse
cercavano informazioni per demolirmi come futuro testimone oppure solo
per impaurirmi. O le due cose assieme».

da «La Gazzetta dello Sport» dell'8 settembre  2012 a firma Massimo Lopes Pegna